Politica
15.04.2016 - 15:000
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43
Il dialettologo Lurà, «dialetto per chi vuole il passaporto? Le priorità sono altre
Il consigliere comunale di Lugano Marioli aveva lanciato l'idea. «È un'arma in più ma non è fondamentale. Chi ha demonizzato il dialetto ha miopia culturale e sociale»
BELLINZONA - Nicholas Marioli, appena eletto nel Consiglio Comunale di Lugano per la Lega, ha subito parlato di corsi di dialetto per chi vuole il passaporto svizzero, suscitando diversi commenti ironici via Facebook. Una misura necessaria, e soprattutto utile? Ne abbiamo discusso col dialettologo Franco Lurà, che afferma che «pur essendo un cultore del dialetto, vedo altre priorità».
Cosa pensa dell'idea di Marioli?«Penso che sia un po' eccessiva. Pur amando molto la realtà ticinese e le varie culture dialettali, credo che non sia necessariamente la via primaria per integrarsi nella nostra realtà. Il dialetto è positivo e utile ma nella società multietnica e multiculturale del giorno d'oggi, dove la percentuale di chi lo parla è ridotta attorno ad un terzo della popolazione, le priorità sono altre».
Il dialetto può avere un ruolo nell'integrazione?«È una freccia in più nell'arco. Come in tutte le cose, chi più ne sa è favorito e dunque conoscerlo è un elemento in più, ma non quello determinante. Vale lo stesso discorso dei bambini plurilingue: più lingue si conoscono sin da piccoli meglio è; però è molto più importante che chi desidera ottenere la nostra nazionalità capisca come funziona la società, qual è la mentalità, come è fatto il territorio, quali sono le istituzioni eccetera. E fondamentale è la lingua italiana, che è pur sempre quella ufficiale».
E per i ticinesi, che importanza ha al giorno d'oggi?«Per quello che riguarda la nostra realtà, indipendentemente dall'essere ticinese doc o meno, ritengo che sia stato fatto un errore di scarsa lungimiranza quando negli anni '60 e '70 si è demonizzato l'uso del dialetto e si è andati in una direzione di relegazione di esso in un ruolo subordinato, con un'immagine negativa. Penso che si sarebbe potuto continuare tranquillamente a parlare in dialetto, avvicinando a esso più lingue possibile. Rinunciare al suo uso è stato sbagliato per quanto concerne il senso di appartenenza e di identità, anche se questi sono concetti mobili nel tempo. Abbiamo rinunciato a una possibilità di radicamento e di conoscenza. Questa molteplice connotazione negativa è stato un errore della scuola e che alcuni intellettuali hanno sostenuto; per me è stata una miopia culturale e anche sociale».
Ha ancora un significato identitario, in un mondo multiculturale?«Ha ragioni identitarie, è vero, ma l'identità, ripeto, è un concetto mobile, non ne esiste una sola ticinese. È un veicolo interessante e importante di appartenenza oltre che utile per capire, anche a livello pratico, la generazioni più anziane. Penso al Sopraceneri, in certe situazioni particolari il sapere e il capire il dialetto è un valore aggiunto di non poco conto, per esempio con gli ospiti delle case anziani, nelle malattie e nelle questioni pratiche. E c'è un bagaglio di conoscenza affidato ai proverbi, ai modi di dire, alle definizione stesse delle cose e dei luoghi, che non è andato perso ed è importante. Serve per esempio per conoscere l'urbanistica e una parte della nostra storia. Il dialetto consente un certo tipo di lettura della propria realtà».
Lo insegnerebbe nelle scuole?«Se avessi avuto dei figli, lo avrei parlato con loro. Il ruolo dell'insegnante di dialetto va preso con le pinze, perché il veicolo privilegiato per trasmetterlo è l'uso in famiglia o con gli amici (anche se sta sparendo). Portarlo nelle scuole è una soluzione da valutare attentamente, personalmente immaginerei di fare qualche esperimento, non solo dal punto di vista grammaticale bensì una trasmissione che tenga conto di tutto quello che è il mondo che si collega al dialetto, ovvero una conoscenza storica, dei rapporti sociali, di storie, leggende, aneddoti locali e tradizioni. Vedrei un insegnamento, dunque, a 360°».
Gli stranieri che arrivano in Ticino come si pongono nei confronti del dialetto? Hanno interesse a impararlo?«In base alla mia esperienza personale, ci sono richieste da parte di persone che non sono nate in Ticino. Il desiderio più diffuso è capire che cosa è il dialetto e che cosa veicola. Tutto sommato chi se ne interessa è una minoranza, c'è comunque una sensibilità, seppur non diffusa. Prima di tutto chi arriva qui vuol padroneggiare bene l'italiano. Se qualcuno chiede un passaporto deve sapersi esprimere bene in una delle lingua nazionali del territorio di cui vuole diventare cittadino, e di conoscere le nozioni base, per esempio cosa sono legislativo e esecutivo, le condizioni storiche e sociali del territorio. Il dialetto, per me, viene dopo».