Mixer
15.10.2017 - 09:000
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43
The world without smartphone. "Connettere le persone in tutto il mondo le ha allontanate e rese più stupide. Almeno si leggesse qualcosa di peso, invece di guardare Instagram..."
"Essere senza un cellulare di ultima generazione è come essere a un festa dove tutti sono ubriachi tranne te", scrive una blogger. "I ragionamenti sono semplici e elementari, si parla senza una frase di senso compiuto. E si è soli, isolati in mezzo agli amici di Facebook"
di Erica Vecchione*Non avere uno smartphone nel 2017 è come trovarsi a una festa dove sono tutti ubriachi tranne te, è come iscriversi a una lezione di balli latinoamericani ed essere l’unica fuori tempo. I movimenti del tuo corpo e la scelta della tua comunicazione scorrono su un canale diverso, su un binario morto.
Per certi versi è una posizione privilegiata perché ci si affaccia al mondo da una finestra nascosta, un falso specchio dove tutti gli altri – affaccendati con il naso all’ingiù – ignorano la tua presenza. Sempre più spesso, quando osservo l’umanità che mi circonda e che mi attraversa senza degnarmi di uno sguardo, ritrovo un immenso magma di gente che compie gli stessi gesti, che parla allo stesso modo, che si assomiglia sempre di più.
L’omologazione iperbolica dovuta agli smartphones (non più strumento di comodo per telefonare o lavorare, ma vero veicolo sociale) inizia da bambini per emulazione, vedendo i propri genitori ossessionati dal telefono, antagonista potentissimo capace di rubar loro la scena.
Gli smartphone entrano nell’interazione delle persone e ne modificano il pensiero, riducono la visione del mondo (impossibile concentrarsi su contenuti scritti in caratteri minuscoli), impoveriscono l’eloquio e la qualità stessa delle relazioni. La più grossa menzogna della tecnologia – connettere le persone in tutto il mondo – non ha fatto altro che allontanarle.
E possibilmente renderle più stupide.
Ci sono padre e figlio sul treno. Sono fissi sullo schermo e commentano la partita di calcio giocata dal genitore sul telefono. Parlano a spizzichi e bocconi, il bambino (di circa dieci anni) non riesce a produrre una frase di senso compiuto, usa parole mutilate. Il padre uguale. Non si guardano, il telefono è uno spartiacque affettivo tra loro.
Una coppia mi è seduta di fronte sul treno. Sono giovani, studiano entrambi all’università a Genova. Parlano per mezz’ora di Instagram e del profilo di un’amica di lei, ripetono all’infinito gli stessi dettagli su come funziona l’applicazione. I loro ragionamenti sono semplici, elementari, e si basano sul nulla. Ma davvero si può parlare per mezz’ora di un profilo Instagram? Mentre lui le parla lei risponde distratta, con il pollice scrolla il telefono dal quale passano velocissime foto a cui lei non bada, eppure guarda.
Quando è stata l’ultima volta che qualcuno mi ha raccontato una storia, un’esperienza senza tirare fuori il telefonino per farmi vedere le foto? L’ultima volta in cui mi ha fatto sognare ad occhi aperti? Non ricordo.
Non è solo l’intelligenza o il calo vertiginoso del linguaggio, ma l’aspetto sociale. È essere soli, sempre più isolati, in mezzo agli amici di Facebook, in mezzo ai followers di Instagram. È non avere nessuno con cui parlare sul serio, qualcuno con cui confidarsi, a cui sentirsi vicini.
Una delle beffe di Facebook è stata quella di appropriarsi del termine condivisione, quando in realtà con gli altri esseri umani non si è capaci di condividere quasi più niente. Neanche una cena.
Quante famiglie, coppie, amici si astraggono dal tavolo per guardare Facebook? In quanti sono più focalizzati a fare la foto del piatto e postarla sul proprio profilo? Come se le persone con cui si trovano fossero solo un tramite per rappresentare una vita parallela che è la loro ma che non la è fino in fondo, perché mentre la stanno vivendo non sono veramente lì con la testa e con il cuore, ma sul telefono.
Anche fisicamente le persone stanno cambiando. La loro posizione non è più così eretta, camminano per strada con il collo allungato verso il basso in una sorta di involuzione a uno stato fetale. Raramente hanno le mani libere, una regge sempre il telefono. E quando sfugge al contatto la vista si attiva allertata, le mani tastano nervose, palpano tasche, frugano borse fin quando, con un sospiro di sollievo, la riconnessione che per pochi istanti si era interrotta, avviene.
Quando si staccano dal contatto simbiotico con il loro telefono sembra gli manchi l’aria, diventano irritabili.
A che cosa gli serve di così fondamentale? Quando sbircio sul loro schermo stanno giocando a qualche videogioco (anche se sono in mezzo ad altre persone con cui potrebbero interagire) ma il più delle volte sono su Facebook, Instagram o scambiano messaggi su uno dei mille gruppi Whatsapp. Di certo non stanno leggendo un reportage su Internazionale o un articolo di Travaglio.
È il vuoto di pensiero che si sta mangiando la capacità di ragionare; è la morte mentale logorata dall’esasperazione dei ritmi di vita, dalla società robotica che cede la sua scintilla di vita e pensiero critico all’attrazione luminosa dello schermo, in uno stand-by intellettuale sempre più lungo.
In pochissimi riescono a stare fermi, inattivi, a contemplare il mondo con le mani in mano riflettendo sulla vita. Per esistere bisognare restare intrattenuti e distratti per non permettere alla mente di entrare in quel meraviglioso limbo, la noia, dal quale scaturiscono idee.
Se gli fai notare la loro incapacità di staccarsi dal telefono ti guardano sciocciati, ti rispondono male. E il loro modo di farti notare che sei out perché col tuo telefono giocattolo (del quale in fondo si vergognano) non puoi postare le foto delle vacanze, perché non sei raggiungibile tramite Whatsapp è la prova che non riuscirebbero mai e poi mai a farne a meno. E al pari di un alcolizzato o un cocainomane negano la propria dipendenza.
Così ti rimetti in strada, eroe senz’armi, continuando a osservare il mondo scorrerti davanti, in attesa di incontrare un tuo simile o qualche converso del web con cui dare vita a una pratica ormai in via di estinzione: guardarsi negli occhi e intavolare una conversazione.
*blogger, da Il Fatto Quotidiano