Politica
23.10.2015 - 14:440
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43
Mozione Caverzasio, come ai tempi del fascismo?
Durissima presa di posizione del presidente dell'USI, Piero Martinoli, «mai mi sarei aspettato di essere confrontato personalmente con una mozione simile, in Svizzera!»
LUGANO – Fortissima presa di posizione del presidente dell’Università della Svizzera Italiana, Piero Martinoli, pubblicata oggi sul Corriere del Ticino (che riportiamo integralmente qui di seguito). Ad indignare Martinoli la mozione di Daniele Caverzasio, che ha chiesto addirittura la chiusura dell’Istituto ricerche economiche (IRE) a causa dei risultato dello studio dell’impatto del frontalierato sul mercato del lavoro ticinese. «Perché, mi domando, commissionare uno studio se le uniche conclusioni ammissibili non potranno che essere quelle che confermano opinioni pre-esistenti?», si chiede Martinoli. «Il parallelismo è forte, ma non posso esimermi dal ricordare che il medesimo approccio fu adottato dai grandi regimi totalitari del passato – quali furono il fascismo, il nazismo, lo stalinismo – che ricorsero alla chiusura di università e di altre istituzioni accademiche le cui ricerche non risultavano in sintonia con le aspettative».
Il presidente dell’USI stigmatizza anche con gli attacchi personali, gli slogan e le minacce apparsi in particolar modo sui social media. «Da semplice cittadino sono preoccupato per questa deriva», conclude Piero Martinoli. «Temo che i veri perdenti, se ci arrenderemo a questa dialettica feroce, alla fine saremo ancora noi ticinesi».
Quella mozione della vergogna *Purtroppo in Ticino siamo giunti a questo livello: il capogruppo della Lega dei Ticinesi chiede con una mozione «la chiusura dell’Istituto ricerche economiche (IRE) dell’USI» perché lo studio svolto dall’istituto giunge alla conclusione che in Ticino non esiste un fenomeno di sostituzione sistematica di manodopera residente con lavoratori frontalieri statisticamente significativo. Richiedere la chiusura di un istituto universitario perché i risultati di una ricerca non sono in linea con la propria percezione, o non sono di proprio gradimento, lede un principio fondamentale sul quale si fonda il lavoro svolto in un’università: l’autonomia accademica, che garantisce ai suoi attori lo spazio per svolgere una ricerca libera da influenze esterne, siano esse di natura politica o economica, a patto che la ricerca sia guidata da rigorose metodologie scientifiche ed elementari regole di etica professionale. Perché, mi domando, commissionare uno studio se le uniche conclusioni ammissibili non potranno che essere quelle che confermano opinioni pre-esistenti? Il parallelismo è forte, ma non posso esimermi dal ricordare che il medesimo approccio fu adottato dai grandi regimi totalitari del passato – quali furono il fascismo, il nazismo, lo stalinismo – che ricorsero alla chiusura di università e di altre istituzioni accademiche le cui ricerche non risultavano in sintonia con le aspettative. Purtroppo anche al giorno d’oggi gli esempi di regimi totalitari che adottano approcci simili non mancano, ma mai mi sarei aspettato di essere confrontato personalmente con una mozione simile, in Svizzera!
Voglio anche riaffermare con forza che la ricerca fatta in un’università si fonda su rigorosi metodi scientifici anche in discipline, come l’economia, che per natura non sono «scienze esatte» ma possono ispirarsi a scuole di pensiero o a teorie molto diverse fra di loro e quindi suscettibili di giungere a conclusioni addirittura contrapposte. Ma non per questo si tappa la bocca a ricercatori che conducono i loro studi con grande onestà intellettuale. Se per una ragione o per un’altra si hanno motivi validi per non essere d’accordo con le loro conclusioni l’unico modo per confutarle è quello di confrontarli con studi basati su altre ipotesi, su altri metodi di lavoro, su altre analisi dei dati. Solo così si può fare emergere un quadro del mondo in cui viviamo che rifletta il più fedelmente possibile la realtà: non la si può negare a priori, esigendo in modo scomposto e irrazionale la chiusura di un istituto universitario e screditandone con tutti i mezzi i suoi ricercatori.
Una nota di stile a questo proposito: sui media, e in special modo sui social media, si è detto di tutto e di più su uno studio scientifico che non solo era ancora sotto embargo, per motivi di analisi e approfondimento da parte del committente (l’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio ticinese), ma che presumibilmente in pochi hanno avuto l’onestà intellettuale di leggere. Invece di fare una valutazione, anche critica, dello studio si è optato per un altro tipo di dialettica: quella degli attacchi personali, degli slogan e delle minacce. Con le critiche convivo serenamente, ma non posso accettare che si spari sommariamente a zero su tutto l’istituto, sui suoi collaboratori e anche sull’USI. Concludo dicendo che anche da semplice cittadino sono preoccupato per questa deriva: temo che i veri perdenti, se ci arrenderemo a questa dialettica feroce, alla fine saremo ancora noi ticinesi.Piero Martinoli, presidente Università della Svizzera Italiana (USI)* articolo apparso sul Corriere del Ticino, 23.10.2015