Giovedì 20 febbraio 2020 nel Lodigiano viene accertato il primo caso a pochi chilometri dal Ticino. Ecco come reagirono le autorità nel ricordo di Denti, Garzoni, De Rosa, Cocchi, e del medico cantonale
Il 20 febbraio del 2020 il Covid-19 entra nelle nostre vite. E anche 5 anni fa il 20 febbraio era un giovedì. Tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio vengono scoperti i primi focolai nel Nord Italia, nel Lodigiano e in Veneto. I casi vengono identificati in particolare in due paesini: Codogno e Vo’ Euganeo.
Riproponiamo alcuni passaggi chiave e interviste ai protagonisti della politica e della sanità, estratti dal libro “Pandemia”, di Marco Bazzi e Andrea Leoni, pubblicato nel novembre del 2020 da Dadò editore.
Il “paziente Uno” di Codogno
Mattia, 38 anni, passa alla storia come il “paziente Uno” a livello italiano ed Europeo. La prima volta si reca al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno il 17 febbraio e gli viene diagnosticata una lieve polmonite. Lo rimandano a casa, ma le sue condizioni si aggravano e, due giorni dopo, la dottoressa del reparto di medicina Laura Ricevuti e l’anestesista Annalisa Malara rompono il protocollo e decidono di sottoporre Mattia al test, nonostante non avesse avuto contatti con la Cina. Il caso del 38enne inquieta l’opinione pubblica e la comunità scientifica, in quanto è uno sportivo ed è sano come un pesce.
(…)
Anche la moglie di Mattia, che è in gravidanza, contrae il virus, ma in modo asintomatico e senza gravi conseguenze. La figlia della coppia, Giulia, viene alla luce il 7 aprile. Destino diverso, invece, per il padre del ragazzo, che muore il 22 marzo. Contagiato dal figlio, come sua moglie, che però sopravvive.
Come e quando il virus sia arrivato in Lombardia è impossibile stabilirlo. Le ipotesi sono molte, dagli stretti rapporti commerciali tra il Lodigiano e la regione di Wuhan, alla massiccia presenza di comunità cinesi nel Nord Italia.
(…)
Da quel 20 febbraio parte la valanga: i casi crescono rapidamente e a ritmo esponenziale in Lombardia, in Veneto e in Emilia Romagna. I focolai diventano incendi, e anche in Ticino la terra incomincia a scottare.
Il dottor Garzoni telefona al dottor Merlani
Il dottor Christian Garzoni ricorda così il “caso Codogno”: “Il weekend della notizia del focolaio lombardo inizia venerdì pomeriggio. Odio il venerdì pomeriggio perché vedi il fine settimana davanti ma spesso devi lavorare fino a tarda ora. Quel pomeriggio è arrivata la notizia di tre contagi in quel paesino del Lodigiano. Nel frattempo si era già costituito il Gruppo di lavoro Covid, di cui facevo parte, tra gli altri, con Carlo Balmelli e Enos Bernasconi per l’Ente Ospedaliero Cantonale, Pietro Antonini, infettivologo e specialista in malattie tropicali alla Moncucco, la specialista in pediatria e malattie infettive Lisa Kottanattu, altri colleghi dell’Ente e il medico cantonale, Giorgio Merlani, insieme ai suoi collaboratori. Avevamo una chat criptata su Thema. I pazienti sospetti li si mandavano a prendere in ambulanza”.
Quando apprende la notizia dei casi di Codogno, il dottor Garzoni chiama il medico cantonale Giorgio Merlani. “Gli ho detto: “Sono molto preoccupato” e lui ha risposto, “Sì, ma per ora sono soli pochi casi”. Ho replicato che in poco tempo ne avremmo avuti un centinaio da noi. Vedevo il potenziale di un pericolo maggiore, considerata la vicinanza geografica e le forti connessioni tra Ticino e Lombardia. Domenica sono andato a Splügen in vacanza e nei giorni successivi è arrivato il primo caso in Ticino”.
Il weekend di Codogno nel ricordo del ministro De Rosa
Anche il ministro della sanità Raffaele De Rosa si ricorda molto bene il weekend di Codogno: “È stato parecchio intenso perché seguivamo l’evolversi della situazione in Lombardia da molto vicino, direi minuto per minuto. Nelle settimane precedenti era stato concordato con la Confederazione che fintanto che non ci fosse stato il primo caso in Svizzera, la comunicazione sarebbe stata gestita dai tecnici, quindi dall’Ufficio federale della sanità e dai medici cantonali. Solo dopo l’individuazione del primo contagio si sarebbe passati al livello politico, prima con il Consiglio Federale e poi con il Governo del Cantone che sarebbe stato toccato. Per noi fin da subito era chiaro che in quel caso avremmo dovuto avere una tempistica la più rapida possibile nella comunicazione, anche se l’informazione fosse arrivata alla sera o nei weekend: desideravamo che la popolazione potesse essere informata tempestivamente qualora fossimo stato il primo cantone toccato dal Coronavirus. In realtà poi incontrammo i giornalisti anche senza il primo paziente, all’inizio della settimana delle vacanze di carnevale, considerato che avevamo un focolaio a 150 chilometri di distanza ed era quindi opportuno intensificare l’informazione ai ticinesi”.
Secondo De Rosa, già da queste piccole sfumature si poteva cogliere la differente percezione del problema che c’era in Ticino rispetto a Berna.
"In ogni caso – aggiunge - quel weekend e la successiva settimana di carnevale hanno segnato l’inizio della crisi. Sono state giornate molto frenetiche, anche perché in poche ore era cambiata la percezione del pericolo. Fino a quel momento la definizione di caso sospetto da parte dell’Ufficio federale indicava le persone provenienti dalla Cina o chi era stato strettamente in contatto con chi tornava dal Paese asiatico. In quei giorni ci si è invece resi conto che i primi casi in Lombardia e in Veneto erano già “indigeni”, perché non si riusciva a ricostruire alcun contatto con la Cina. Quindi è cambiato completamente il paradigma”.
(…)
L’Italia in quarantena: le zone rosse
Quel weekend, alla luce dell’esplosione dei contagi e dei primi morti, l’Italia mette in quarantena, manu militari, dieci comuni del Lodigiano e la cittadina veneta di Vo’ Euganeo. Vengono cancellate tutte le manifestazioni pubbliche in Lombardia e in Veneto, tra cui diversi carnevali sulla fascia di confine. È il primo mini lockdown europeo e si inizia a parlare di “zone rosse”. La mannaia dei divieti si abbatte anche sul calcio, con il rinvio della partita Inter-Sampdoria. Stessa sorte tocca ad altri incontri in calendario quella domenica, come Torino-Parma. Si era invece giocata, il mercoledì precedente, allo stadio Meazza di San Siro, la partita di Champions League Atalanta-Valencia. Una partita che fungerà da detonatore per l’esplosione della pandemia nella provincia di Bergamo.
Il dottor Denti: “Chiudiamo le frontiere”
Quella stessa domenica 23 febbraio il presidente dell’Ordine ticinese dei medici, Franco Denti, rilascia a liberatv.ch un’intervista che farà il giro della Svizzera: “Dal punto di vista medico, tenendo conto delle misure draconiane che si stanno prendendo in Lombardia e in Veneto in queste ore, credo che potrebbe essere proporzionato introdurre una chiusura temporanea delle frontiere con l’Italia, proprio per evitare l’afflusso di 70’000 lavoratori frontalieri. Una misura che potrebbe durare 5 giorni: il tempo necessario per far stabilizzare la situazione in Lombardia e per consentire al Canton Ticino di prepararsi adeguatamente all’emergenza”.
Il trattato di Schengen, aggiunge Denti, “consente tra l’altro, la chiusura delle frontiere in caso di emergenze sanitarie. In Consiglio Federale siede un medico ticinese, che è stato anche medico cantonale ed è specialista in sanità pubblica. Spero che Ignazio Cassis possa spiegare ai suoi colleghi la situazione particolare del nostro Cantone”.
Le parole di Denti aprono un primo scontro politico. L’oncologo ed ex consigliere nazionale Franco Cavalli, gli replica ai microfoni di TeleTicino: "Se lasciassimo fuori i frontalieri dovremmo chiudere gli ospedali, visto che il 25 per cento del personale di cura proviene da oltre confine. Non è chiudendo le frontiere che evitiamo il problema".
Cavalli punta piuttosto il dito contro i carnevali: vanno chiusi quelli, non i confini, dice.
(…)
La mancata chiusura del Rabadan
Non solo le frontiere fanno discutere, ma anche la mancata chiusura del carnevale di Bellinzona. Anzi, il fatto che il Rabadan abbia potuto svolgersi indisturbato fino alla fine resterà nell’immaginario di molti ticinesi come un imperdonabile errore. E il tema è ancora oggi controverso. È difficile dire se la mancata serrata sia stata davvero un megafono per il virus. C’è chi lo sostiene con convinzione, ma potrebbe anche non essere così, se consideriamo che, come in Lombardia, forse il virus circolava anche in Ticino sotto traccia già nelle settimane precedenti, e quindi altri eventi pubblici di grande richiamo – altri carnevali, manifestazioni sportive o semplicemente assembramenti in locali molto frequentati – potrebbero aver dato forza all’epidemia.
Ancora oggi, a distanza di mesi, le ragioni per le quali non si decretò la chiusura degli ultimi tre giorni - dal corteo di domenica 23 febbraio al quale, grazie a una giornata di pieno sole, parteciparono circa cinquantamila persone, molte delle quali provenienti dal Nord Italia, alla serata conclusiva del Martedì Grasso – rimangono nebulose.
Non ci fu il tempo per reagire? Era una misura sproporzionata, essendo il Ticino ancora fermo a zero contagi? Il Rabadan era una macchina troppo grossa per rischiare di fermarla inutilmente? Eppure, nel Nord Italia tutte le grandi manifestazioni pubbliche, a iniziare dalle partite della Serie A di calcio, erano state tempestivamente bloccate.
Parlando di un possibile stop del carnevale, il presidente del Rabadan, Flavio Petraglio, dichiarò qualche giorno dopo la fine della manifestazione: “Mentirei se dicessi che non ci abbiamo pensato. Siamo stati, specie negli ultimi due giorni, in costante contatto con le autorità cantonali poiché eravamo attenti e vigili sugli sviluppi sulla situazione del Coronavirus in Ticino. Se il DSS lo avesse chiesto, eravamo pronti a introdurre delle misure particolari o, addirittura, a cancellare i festeggiamenti”.
Merlani e Miss Mondo
Ma la mancata chiusura del Rabadan coincide anche con la frase topica che il dottor Giorgio Merlani consegna, suo malgrado, alla storia della pandemia. Domenica sera, dopo il corteo, il medico cantonale dichiara alla RSI: “Il sistema sanitario lombardo ha semplicemente appurato che ci sono 133 persone ammalate, ma non vuol dire che il virus si stia diffondendo. Sono persone che erano in contatto con i casi sospetti e che sono state cercate attivamente. Queste 133 persone si sono ammalate nell’ultima settimana. La Lombardia ha nove milione di abitanti, il Nord Italia più di venti… Diciamo quindi che è molto più facile ritrovarsi al carnevale vicini a Miss Mondo che non a qualcuno con un’infezione di questo tipo”.
“Mi sono già scusato per quella battuta su Miss Mondo – afferma il dottor Merlani intervistato nel suo ufficio nel mese di agosto -. Purtroppo quando l’ho pronunciata i dati che avevamo ci dicevano che il virus non era presente in Ticino. E quindi mettere in atto delle misure draconiane, senza avere neppure un caso positivo nel nostro Cantone, sarebbe stato qualcosa di sproporzionato. Per comprendere e valutare correttamente le decisioni adottate in quei giorni, è importante contestualizzare. Quando dissi per la prima volta che non si potevano più giocare le partite di hockey con i tifosi, fui guardato come se fossi impazzito, sia a livello federale che cantonale. Lo stesso quando si ipotizzava la chiusura del carnevale. Ma è una reazione assolutamente comprensibile. Oggi ci sembra una cosa normalissima giocare le partite a porte chiuse o pensare di chiudere una grande manifestazione come il Rabadan - e scellerato chi non ha pensato di farlo prima! - ma allora non era mica così. La reazione istintiva andava esattamente nella direzione opposta quando si prospettavano certi provvedimenti”.
24 febbraio: la prima conferenza stampa del Governo
Lunedì 24 febbraio, per la prima volta il Governo e le autorità sanitarie si presentano in conferenza stampa per spiegare la loro linea. La notizia è che non viene adottata alcuna misura restrittiva.
(…)
Motivando la decisione di non adottare alcun provvedimento di chiusura, il direttore del DSS De Rosa dice in sostanza: “Dopo aver visto le misure che sono state prese in Lombardia - con la chiusura di esercizi pubblici e la cancellazione di eventi - ho chiesto al nostro gruppo di esperti se dovevamo fare altrettanto. La risposta è stata molto negativa e io ho riportato in Governo questo parere. E all’unanimità abbiamo deciso di assecondare quanto consigliato dagli specialisti. Ci sono misure che politicamente possono portare qualcosa, ma che dal punto di vista scientifico non portano risultati”.
Il medico cantonale conferma: "Tra le misure di contenimento ce ne sono alcune che funzionano, come la quarantena, e altre che vengono prese in determinate situazioni. Queste limitazioni non raggiungerebbero lo scopo e non sarebbero proporzionate. Quindi, difendo con convinzione questa decisione".
E aggiunge che in quel momento non c’era alcun pericolo a recarsi in Lombardia, salvo le zone rosse del Lodigiano: “Quindi, non avrei nessun problema ad andare a cena a Milano stasera".
Della mancata chiusura del Rabadan si occupa anche la Neue Zürcher Zeitung in un lungo reportage pubblicato il 16 maggio. Il quotidiano racconta la vicenda del giovane meteorologo Lorenzo Di Marco, che dopo una serata al carnevale di Bellinzona scopre di essere positivo. Neppure la NZZ, però, risolve l’arcano del Rabadan. I giornalisti zurighesi intervistano anche il dottor Merlani, il quale racconta che sabato 22 febbraio parte con la famiglia per una vacanza sulle nevi austriache. Siamo nel weekend di Codogno, e il medico cantonale ha contatti sia con l’Ufficio federale della sanità sia con gli specialisti ticinesi. In particolare viene narrata una “conference call” improvvisata con due iPhone nella stanza d’albergo. Durante quel collegamento viene modificato il protocollo: non si cercano più solo persone collegate con la Cina, ma si decide di allargare i test anche a persone indigene con febbre alta e sintomi respiratori. Si decide inoltre di diramare un’informativa ai medici del Cantone. Il giorno successivo, domenica, Giorgio Merlani interrompe le vacanze e fa rientro in Ticino.
“Durante il mese di febbraio coltivavamo la speranza che i cinesi riuscissero ad arginare la malattia, come in precedenza era avvenuto con la SARS – racconta Merlani durante il nostro incontro in agosto -. Il weekend in cui si registrarono i primi casi nel Lodigiano, il sabato sono partito con la famiglia per la settimana bianca. Mentre sono in viaggio mi telefona Daniel Koch e mi dice: “Giorgio, guarda che c’è un problema serio in Lombardia”. Anche noi, ovviamente, sapevamo quanto era accaduto a Codogno e perciò gli chiedo di essere più preciso. E lui mi risponde che, dalle informazioni che aveva assunto come Ufficio federale della sanità pubblica, nel suo compito d’intrattenere relazioni internazionali, la manciata di contagi in quel momento noti nel Lodigiano erano probabilmente solo la punta dell’iceberg e che la situazione era potenzialmente disastrosa. A quel punto, ho fatto una serie di telefonate e ho capito che effettivamente in Lombardia la situazione era seria. Ho così deciso di rientrare immediatamente in Ticino”.
Merlani chiama Daniel Koch
Appena tornato in Ticino, Merlani chiede a Daniel Koch di inviare a Bellinzona qualcuno dell’Ufficio federale della sanità pubblica: “Senza voler essere presuntuosi – racconta il medico cantonale - non è che avessimo bisogno di aiuto per gestire la crisi, però il Ticino in quel momento diventava una sorta di laboratorio. Era quindi importante che fosse presente qualcuno dell’UFSP che vedesse di persona quanto stava accadendo nel nostro Cantone. Una figura che fungesse un po’ da ufficiale di collegamento tra noi e la Confederazione, che facilitasse lo scambio d’informazioni a beneficio di entrambi. Certo, con Koch ci sentivamo regolarmente, ma avere qualcuno qui in Ticino dove le cose stavano succedendo, dove era possibile toccare la situazione con mano, sarebbe stato qualcosa di utile e positivo. Da Berna mi risposero che avrebbero cercato qualcuno, che però non era facile… Alla fine non è mai arrivato nessuno. E pensare che se c’è un sospetto caso di malattia emergente, l’OMS manda i suoi specialisti ovunque scoppi il focolaio”.
Matteo Cocchi sul Rabadan: “Era materialmente impossibile chiuderlo”
In quei giorni, anche il comandante della polizia cantonale Matteo Cocchi è in vacanza fuori Cantone. Come molti ticinesi, quel sabato è partito per trascorrere qualche momento di relax sulle piste grigionesi. “Ma domenica mattina – racconta nel suo ufficio al primo piano del palazzotto in cemento armato dove ha sede il Comando della Polizia cantonale - ho chiamato il mio omologo del Canton Grigioni e gli ho chiesto se poteva mandarmi una pattuglia per rientrare in Ticino, in modo che la mia famiglia potesse rimanere in montagna. Alle 10 del mattino sono salito sull’auto della polizia. Non avevo nessun compito in quel momento, ma ho capito che la situazione cominciava a puzzare, considerate le notizie che arrivano dall’Italia. Nel pomeriggio, ci siamo riuniti alla Centrale comune d’allarme a Bellinzona. C’erano per lo più rappresentanti della polizia, oltre al medico cantonale”.
Cocchi ha le idee chiarissime sulla vicenda Rabadan: è convinto del buon operato delle autorità. “Nella gestione dei carnevali siamo stati perfetti. Chi oggi ancora crede che il Rabadan andasse chiuso prima, non ha capito la tempistica. Il carnevale è iniziato giovedì e quel giorno non c’era nessuna avvisaglia. Il primo caso accertato in Italia è arrivato solo venerdì. La nostra macchina si è messa in moto domenica. Ricordo che in quel momento non era stato neppure dichiarato lo “stato di necessità” e non era ancora stato attivato lo Stato Maggiore cantonale di condotta. Lunedì c’è stata la prima riunione del Governo. Il Rabadan si avviava alla conclusione. Era materialmente impossibile chiuderlo prima. Dopo il primo caso positivo però, registrato mercoledì, abbiamo deciso di cancellare i carnevali ambrosiani e di giocare il derby di hockey a porte chiuse. E con quella decisione, de facto, il Governo ticinese ha decretato la fine del campionato. Certo, se i primi contagi in Italia si fossero verificati una settimana prima, anche il Rabadan sarebbe stato probabilmente chiuso. Ma del senno di poi son piene le fosse. Piuttosto che perdersi in inutili discussioni sul carnevale, occorrerebbe invece ricordare come il Ticino sia stato precursore in Svizzera di molte decisioni. Tant’è vero che, nel corso della crisi, più volte i miei colleghi di altri Cantoni mi telefonavano per chiedermi informazioni su come stavamo gestendo la situazione, in modo da poter ricalcare i nostri provvedimenti”.
Il dottor Christian Garzoni, dal canto suo, quando lo interpelliamo sul punto, spiega così la decisione di non fermare il Rabadan: “Non vi erano i presupposti. Allora non c’era ancora alcun caso in Ticino. In quel momento, e ricordo che il gruppo di lavoro si è ritrovato il lunedì, il carnevale di Bellinzona volgeva al termine e fermarlo sembrava ai più una decisione spropositata. Non vi era un argomento razionale sufficientemente forte per sostenere una misura del genere. Anche se, come specialista in malattie infettive, ero molto preoccupato e vedevo potenzialmente l’epidemia arrivare sul nostro territorio. Nei giorni successivi la situazione è stata discussa in modo approfondito. Ma gli stessi esperti avevano visioni diverse: c’erano voci più preoccupate, altre meno”.
Forse i festeggiamenti del carnevale hanno favorito la diffusione del virus, aggiunge Garzoni, “ma il vero problema è stato un altro. Molti ticinesi erano andati in vacanza sulle montagne lombarde, dove abbiamo poi scoperto esservi molti casi. Inoltre, essendo ancora inverno, e i contatti stretti in locali piccoli e poco ventilati erano frequenti. Il reale problema è che questo virus è altamente contagioso e se le persone interagiscono a distanze ravvicinate si diffonde. È la sua biologia. Uffici, negozi, bar, aperitivi, concerti, e i classici abbracci e strette di mano: la gente non ha fatto attenzione, ma perché non c’era consapevolezza, nessuno aveva mai sentito parlare di “social distancing”. E poi c’erano molti contatti tra il Ticino e il Nord Italia, personali o di lavoro. Il virus si è propagato perché inizialmente, quando neanche sapevamo della sua presenza sul territorio, non c’erano misure di distanziamento sociale e, purtroppo, le autorità le hanno imposte quando l’infezione era già molto diffusa tra la popolazione”.
Dalle parole del direttore sanitario della Moncucco si capisce come la questione Rabadan sia stata discussa dagli specialisti. Cosa che ci conferma anche il dottor Merlani quando lo incontriamo nel suo ufficio: “La questione del carnevale è stata discussa e valutata nei vari gruppi di lavoro. Si sono fatte delle ipotesi. Lo si chiude, non lo si chiude, si raccomanda ai ticinesi di non andarci, ma senza chiuderlo… Certamente è stata fatta una valutazione in tal senso”.
E a livello politico? Fino a che punto il Consiglio di Stato si è chinato sull’ipotesi?
(…)
Norman Gobbi ricorda che in quel momento “la situazione evolveva giorno dopo giorno. In quel weekend ci si poteva immaginare che il virus cominciasse a circolare anche in Ticino, ma non c’era grande apprensione, solo una sana preoccupazione. Invece, nei giorni successivi, ci si è resi conto che il Covid si stava già diffondendo velocemente sul nostro territorio. Infine, c’era comunque un quadro giuridico da rispettare, prima di poter decretare delle misure di contenimento”.
Più articolato è il resoconto del ministro Raffaele De Rosa, quando gli chiediamo se è vero che lui era favorevole a una chiusura anticipata del Rabadan: “Oggi sarebbe troppo facile per me rispondere di sì. Proviamo a tornare al clima di quelle ore. Il giorno di apertura del carnevale di Bellinzona è stato giovedì, con il pranzo del cuore per i disabili e a seguire il venerdì il pranzo per gli anziani. I capannoni erano gremiti ed erano presenti anche diversi Consiglieri di Stato, tra i quali io stesso. In quel momento non vi era alcuna avvisaglia di pericolo. Domenica c’è stato il corteo, è vero, ma c’erano anche le partite di calcio e di hockey. Ora, torniamo al mese di giugno e ripensiamo alla reazione che ha avuto la gente dopo un paio di settimane a 0 contagi e 0 decessi. C’è stato un rilassamento generale da parte di molti, nonostante in Ticino abbiamo avuto 350 morti, più di un migliaio di persone ospedalizzate e centinaia di persone in cure intensive. Provo a porre io una domanda a questo punto: se anche avessi avuto l’idea di chiudere anticipatamente il carnevale di Bellinzona, con 0 casi come avrebbero reagito le persone a questo provvedimento? La gente non si sarebbe a quel punto riversata nei bar a festeggiare? E con tutti quelli che sono andati alla pista o allo stadio, oppure in vacanza in Italia o a fare la spesa oltre confine, come la mettiamo? Il giorno dopo che in Ticino è stato registrato il primo caso, il Governo ha chiuso tutti i carnevali, che peraltro erano quelli ambrosiani, delle mie valli. Dopo quella decisione ho ricevuto diversi messaggi di protesta da parte degli organizzatori che mi dicevano: “Adesso come la mettiamo, chi paga? Siamo delusi”. Ricordo di aver risposto chiedendo solo una cosa: di concedermi 15 giorni per capire se avevo sbagliato oppure no. Due settimane dopo mi hanno ringraziato per le decisioni adottate dal Governo”.
(…)
Anche Giorgio Merlani, riavvolgendo il nastro della memoria nel mese di agosto, sottolinea il tema della settimana bianca: “Abbiamo avuto una montagna di casi positivi da parte di persone che erano andate a sciare sulle Dolomiti. Ricordo una giovane paziente, purtroppo finita in cure intensive, che ha raccontato di essere andata dal medico in un villaggio dolomitico dove la sala d’attesa era piena di gente che non stava bene, con la febbre e che tossiva. Il medico si lamentava di come quest’anno l’influenza fosse particolarmente virulenta. Ma evidentemente non si trattava di influenza…”.
“Con il senno di poi – aggiunge - è tutto più facile, anche dire che i carnevali andavano chiusi immediatamente. Ribadito che una grande parte del virus è stato importato da chi si è recato in Italia a fare la settimana bianca, bisogna aggiungere che la maggior parte dei carnevali si erano già conclusi. E poi, come accaduto in Lombardia, possiamo supporre che anche in Ticino il virus circolasse sotto traccia già nelle settimane precedenti, dove sono molti gli eventi di massa che potrebbero averne agevolato la diffusione. Ma capisco che in Ticino la domanda da un milione rimanga senza risposta: il Rabadan si sarebbe dovuto fermare prima della sua conclusione? In tutta onestà non credo che la chiusura anticipata avrebbe fatto la differenza sulla diffusione dell’epidemia. L’impatto del Covid-19 in Ticino sarebbe stato identico. Forse si sarebbe presentato con una settimana di ritardo, ma non più di questo”.