di Eugenio Jelmini
Con milioni di svizzeri ho condiviso la bella condizione di possedere cani e gatti. Si calcola che nel solo Ticino un abitante su dieci viva con un animale domestico. Ho visitato veterinari, fatto scorte di cibo nei supermercati e intrapreso le passeggiate quotidiane con gli immancabili convenevoli con gli altri proprietari: razza, sesso, età e nome per cominciare. Quante Luna, Kira, Jack, Rocky e Mira abbiamo incontrato. Meno facile è stato conoscere i cosiddetti cagnolini da borsetta, le proprietarie frequentano più i centri che le rive dei fiumi, i sentieri montani o i parchi dedicati.
La premessa mi serve per far sapere che non ce l’ho con gli animali, sempre meglio precisarlo. Ma non posso tacere un certo sconcerto di fronte a quella che si potrebbe definire l’umanizzazione delle abitudini dei nostri amici a quattro zampe, che finisce spesso con il calpestare la loro natura. Qualcuno ha scritto che un tempo cani e gatti “vivevano in famiglia” mentre oggi sono componenti a tutti gli effetti del nucleo. La differenza è sottile ma importante. Proiettare sull’animale l’immagine del bebè o di chi ci ha lasciato porta spesso a credere che Fido abbia bisogno di essere difeso e protetto dalle minacce esterne, ma così facendo lo indeboliamo rendendolo più vulnerabile e inibendo lo sviluppo dei suoi istinti.
L’affetto e l’amore non si misurano - e sono solo esempi - facendo dormire il cane nel nostro letto, magari sotto il piumone o condividendo il pasto. Men che meno mettendogli un collare Swaroski, un papillon o smaltandogli le unghie (è successo a qualche gatto).
L’altro giorno sulla riva del lago dove sono solito fare il bagno una signora cercava di infilare un giubbotto di salvataggio al proprio pastore tedesco. “Voglio che impari a nuotare gradualmente poverino, con tutti i cani che annegano.” A nulla sono valse le spiegazioni di un anziano: guardi che quella razza sa nuotare benissimo e di cani annegati in 75 anni che vivo sul Ceresio non ne ho visto uno.