di Giuseppe Zois *
Scrivere “Grazie” sapendo di recitare un “requiem”. Conoscendo Lillo Alaimo, dev’essere stato questo il pezzo che gli è costato più tempo e fatica fra centinaia di editoriali con i quali dava il buongiorno ogni domenica dal suo “Caffè”. Correva il 4 luglio 2021 ed erano passati 28 anni dalla presentazione ai lettori. L’uso dell’aggettivo possessivo non è casuale. Quella testata portava forte l’impronta del suo direttore, che era stato l’homo faber del progetto, diventato prodotto. Era il giornale di Lillo, per il taglio identitario preciso che aveva saputo imprimergli, ma al tempo stesso portava una non comune coralità di voci, con argomenti a tutto campo, anche quelli prudenzialmente schivati da chi non vuole disturbare questo o quel manovratore, favoriva analisi, proponeva confronti, apriva focus scomodi, affrontava inchieste.
Di più: per avere il polso del suo lavoro, quindi dell’impatto sull’opinione pubblica, era stato formato un gruppo di lettori critici che rilevava la temperatura attraverso un ampio arco di sensibilità, tanto anagrafiche quanto – in senso lato – politiche. Sempre senza aver paura di possibili linee di febbre per le posizioni di volta in volta assunte, costasse pure l’impopolarità. Aperto, certo, ma senza fare sconti quando c’erano di mezzo valori non negoziabili come la dignità del lavoro e dei lavoratori, la difesa di chi è vittima di angherie, ingiustizie, umiliazioni (quindi la difesa di chi non ha voce ed è prevaricato da poteri forti).
Tradotto: una schiena diritta. Con annessa l’onestà di riconoscere errori o eccessi. Non si fermava neppure con intimidazioni o minacce di vie legali, ma si poneva come argine contro il tracimare del fiume della prepotenza, intollerante con gli arroganti. Nel perseguimento della ricerca della verità non decampava: e lo ha dimostrato sfidando denunce, andando a processo (clamoroso il caso dei seni amputati per scambio di identità) ed essendo anche assolto. “Un giornale può pubblicare una notizia se il tema è di rilevanza pubblica, se viene concesso il diritto di replica, se le affermazioni delle fonti sono state verificate e se vi è urgenza di pubblicare” sentenziò il giudice del Tribunale Penale di Bellinzona, Siro Quadri.
La casistica del “comandante impavido” è ricca: scrivendo per lui sul “Caffè” si aveva la sensazione di sicurezza e di protezione e non è cosa da poco quando si è sotto tiro con querele. Sta infatti diventando normale per parecchi giornalisti, mossi da serietà, essere “dichiarati in sospetto”, mezzo efficace per mettere a tacere. Lillo è stato sulla scena della comunicazione da protagonista atipico. Non frequentava consapevolmente i salotti, rifuggiva da ogni rischio di “dipendenza” o legame imbarazzante e lo era a tal punto che non aveva alcuna tessera giornalistica di appartenenza. Coerente con la sua visione di poter dire la sua in autonomia, senza che gli si potesse rinfacciare alcunché, né favori richiesti né ammiccamenti o inclinazioni. C’era solo come regola di fondo il rispetto del mestiere che aveva scelto: per sé stesso e per i lettori, incurante dei mal di pancia che poteva causare. Lo esigeva anche da chi si metteva in cordata con lui.
Da subito aveva puntato su autorevolezza e credibilità e per questo gli era riuscita l’aggregazione di autori di prim’ordine, su un livello tenuto costantemente alto, dagli opinionisti agli inviati di prestigiose testate. Riusciva bene nell’arte del contatto. Una costellazione di firme, per lui una patente di pluralismo, per gli invidiosi o i detrattori una forma di snobismo. Deciso sulle sue scelte, premiate comunque dai lettori e dalla tiratura: lucido, incalzante, determinato, con piglio di originalità, veloce e brillante nella scrittura, reattivo anche su avvenimenti dell’ultima ora.
Quando si perde un amico all’improvviso e in età che oggi si può ancora definire giovane, c’è sempre in agguato la tentazione di farne un santino: Lillo era schietto, diretto, infastidito dall’adulazione. Raccontarlo per intero è impossibile, e sarebbe comunque sempre una parte; era presente contemporaneamente su tutti i fronti dove l’attualità chiama, pronto anche ad attraversare l’ignoto in nome della notizia, allergico per principio alle rimasticature. I molti che hanno lavorato con lui ben lo sanno.
Un piccolo ma non irrilevante dettaglio: in una ventina d’anni di collaborazione con ogni forma di linguaggio, posso dire di non aver mai avuto un intervento di censura o anche solo limitativo. Coinvolgeva, motivava, responsabilizzava, dava fiducia (e non sempre è stato ricambiato). Per come vanno le cose oggi, chiaramente un irripetibile. Mancherà a chi lo ha conosciuto e lavorato vicino o da remoto con lui; mancherà a molti, mancherà soprattutto a un certa idea dell’informazione. Appassionatamente indipendente.
* già direttore del Giornale del Popolo e collaboratore del Caffé