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Cronaca
05.04.2018 - 09:300
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:51

Gli hikikomori ticinesi: i giovani che vivono relegati in camera esistono anche da noi. Lo psicoterapeuta, "Internet a volte può perfino aiutare. Genitori, ecco i segnali"

Nicola Gianinazzi spiega come il ritiro volontario dalla vita sociale "può essere un segno di diverse patologie, gravi o meno, e i motivi sono di varia natura, anche oggettiva, come disoccupazione o delusioni. La pressione sociale fa sì che disturbi come ansia, panico o dipendenze nutrano questo gruppo di sintomo"

BELLINZONA – Si ritirano improvvisamente dal mondo, si chiudono in camera, difficilmente escono anche solo per mangiare con la famiglia. Stanno davanti a un pc, concentrati su un videogioco, magari con la luce spenta. Gli unici contatti sono quelli virtuali. Si chiamano hikikomori, giovani che si chiudono e si autorelegano.

Una problematica complessa, che può essere sintomo e problema insieme, perché ogni storia è diversa, come ci spiega lo psicoterapeuta ASP Nicola Gianinazzi.

Per chi non conosce il fenomeno, chi sono questi ragazzi?
“È una tipologia di persone che vediamo nella pratica clinica abbastanza frequentemente. Il ritiro sociale è un sintomo che può essere comune a diverse patologie, da strutture patologiche più gravi a sindromi ansio-depressive più comuni. I motivi possono essere di varia natura, ciò che si osserva è che non escono, riducono molto le uscite, si ritirano intorno a un nucleo familiare, anche conflittuale, sono particolarmente dipendenti e invischiati nelle relazioni primarie, a volte si dedicano anima e corpo a un videogioco o a un mondo virtuale. A difficoltà psicologiche possono aggiungersene altre oggettive, come disoccupazione, oppure aquest’ultima è semplicemente un fattore in più che rende difficile staccarsi dalla famiglia o dal pc”.

È più complicato, per loro, lasciare la famiglia o il computer?
“Dipende, le storie sono diverse. Quel che trovo interessante è mettere l’accento sul fenomeno, che può avere le origini e gli svolgimenti disparati. È un elemento che appare in storie cliniche diverse”.

Le è capitato spesso avere a che fare con questi ragazzi? Immagino sia difficile portarli dallo psicoterapeuta?
“Non saprei fare una statistica. Sono persone con difficoltà a entrare nella vita sociale, per dipendenze, aggressività, o altro. La psicoterapia è un ponte, una sorta di terra di mezzo. Stranamente in un’era in cui viaggiare è appetibile per tutti siamo davanti a giovani che non escono nemmeno dalla stanza, un fenomeno che denuncia senz’altro anche un disagio sociale, oserei dire epocale, come del resto succede anche con altri disagi come l’anoressia. Non penso sia una problematica in crescita esponenziale, ma la pressione sociale fa sì che disturbi come ansia, attacchi di panico o dipendenze nutrano questo gruppo di sintomi”.

Internet, in un certo qual modo, aiuta a mantenere quanto meno delle relazioni virtuali. Dunque, può non essere del tutto negativo. È d’accordo?
“La psicoterapia non è la vita reale-reale, appunto è piuttosto una terra di mezzo, pur avvenendo (se non praticata online) in uno spazio-tempo reale tra due persone reali, così come non lo è Internet. E tutti e due però possono aiutare: la prima certamente, la seconda se debitamente regolato ed utilizzato. Venire da uno psicoterapeuta vuol dire già uscire di casa. Questi ragazzi tramite un fumetto online, un videogioco, una chat o qualcosa di simile, escono per incontrare persone, non tutto è bene e non tutto è male. Se si è dipendenti si lavorerà per ridurre le ore passate online, spesso tutte di notte, dato che alcuni gruppi nei videogiochi giocano online. Bisogna lavorare con ciò che c’è, e se Internet permette di avere delle relazioni, si cercherà anche di agganciarsi a questo, di mettere in rete questi giovani, anche con altri servizi, ma innestandosi su quanto c’è e ancora interessa”.

Che età hanno i giovani di cui parla? Sono ragazzi o ragazze?
“Direi di solito dopo la scuola media, quando non trovano un lavoro, o dopo le prime delusioni o le prime patologie psichiatriche o somatiche: è lì che possono cominciare a staccarsi dalla vita reale. Vedo in ugual numero ragazzi e ragazze.  Le cause possono essere gravi a monte o più secondarie”.

Un genitore che segnali deve cogliere, per intervenire in tempo?
“È un processo. Si tratta di vedere gli aspetti qualitativi e quantitativi. Se un ragazzo comincia a non avere più amicizie o ambiti lavorativi o di studio, sono gli aspetti quantitativi: riduce di molto i tempi, le relazioni. Un conto poi è se un giovane per esempio ha una ragazza e gioca ai videogiochi, o se piuttosto ha solo un amico che vede una volta la settimana e gioca tanto: questi sono gli aspetti qualitativi. Si deve vedere quali campi sociali restano aperti, e in che misura. Esiste un ragazzo magari inibito ma con molti hobby, che esce poco. Va visto se è cambiato qualcosa, in modo repentino, se si sono manifestati problemi, come delusioni o litigi-conflitti pervasivi con amici”.

Quando si vedono segni simili, cosa si deve fare?
“La psicoterapia a questo livello è un aiuto certo ed economico rispetto ai costi successivi che potrebbero generarsi sul piano sociale e personale, anche se può essere più una consulenza per la famiglia inizialmente. Purtroppo, si veda in questo ambitola chiusura del dialogo da parte del Consigliere federale Alain Berset, si sta facendo di tutto per non promuoverla, pur essendo necessaria. Senza la psicoterapia presente capillarmente sul territorio (e non solo nelle città o rivolta agli adulti, come un recente studio dimostra) il segnale può arrivare troppo tardi, e se è complesso come questi non si colgono. Magari uno non pensa che perché un ragazzo sta in camera col pc soffre, non ha un cancro o non è folle, però sta male e rischia di avere un costo non indifferente proprio a seguito di questa mancanza di osservazione e attenzione”.

Ma si può uscire da questa fase? C’è speranza per i familiari?
“Si hanno delle belle soddisfazioni con loro, anche con preadolescenti dove si vede come il nostro intervento può essere utile e costruttivo, ma previene anche peggioramenti o crisi successive. A volte serve tanto tempo, a volte no. Per i genitori, c’è speranza, ci si può lavorare: le cause e i decorsi però, come detto, restano molto individuali”.

Paola Bernasconi
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