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Cronaca
19.09.2018 - 12:570

"A trans si associa perversione e prostituzione, invece ci sono dolore e liberazione".

Il racconto di una persona che sta "allineando il proprio corpo: mi sentivo completamente sbagliata e anestetizzavo i pensieri. Finché non ce l'ho più fatta"

LOCARNO – Decidere di cambiare vita alla soglia dei quarant’anni, dopo anni di sofferenze messe a tacere senza successo. Scegliere di “allineare il proprio corpo”, come ci ripete: non usa mai il termine “cambiare sesso”. Il suo è un percorso, lungo, difficile, anche doloroso, raccontato con delicatezza, umanità e un briciolo di commozione. Dopo la storia della transgender cacciata dal negozio di parrucchiere, una persona che sta attraversando la transizione (nome noto alla redazione) ci ha contattato: questa è la sua storia, o almeno un frammento.

In che fase del percorso si trova?
“Sto subendo una terapia ormonale che mi permette di far sì che il mio aspetto fisico rispecchi quel che io mi son sentita di essere. Essendo nata geneticamente maschio, il corpo produce testosterone e assumo un antiandrogeno che va a limitarne la produzione, mentre d’altra parte prendo un altro farmaco che mi aiuti ad avere estrogeni (dato che non ho le ovaie). In più ci sono questioni come la rimozione della barba. a breve inizierò delle sessioni da una logopedista per far sì che il mio tono di voce diventi più alto: se non funziona, quando si rimuove il pomo d’Adamo si può intervenire sulle corde vocali”.

Il tutto è molto lungo. Come si vive una strada del genere, pensando a operazioni che potrebbero portare anche dolore fisico?
“L’intervento finale è quello di rassegnazione, dove mi verrà ricostruita una neo-vagina. Cosa devo dire… Io ho cominciato il percorso da quattro mesi, alla soglia dei quaranta. Ho passato una vita intera a negare, a non accettarmi, a non voler prendere coscienza che la situazione era questa. Tutto nasce dall’infanzia, è l?i che una persona ha i primi sintomi. A 4-5 anni prendevo i vestiti di mia mamma, me lo ricordo. È qualcosa che progredisce sempre più, una persona non si identifica col proprio corpo. Ho cercato per una vita intera di interpretare il ruolo del maschio, ma non essendoci mai riuscita e essendo così forte la sensazione di malessere di sentirmi completamente sbagliata, avevo bisogno di anestetizzare il cervello quando ero sola. Lo facevo abusando di alcool, finchè sono arrivata a dire che non ce la facevo più. È cominciato il fenomeno di accettazione, elaborazione, metabolizzazione di qualcosa che già sapevo”.

Prima di iniziare ci sono, immagino, visite psicologiche per capire se quella dell’allineamento è un’esigenza reale. Corretto?
“Per avere accesso alla terapia ormonale c’è un/a psichiatra che attesta la disforia di genere. Fino a poco tempo fa veniva ancora chiamato disturbo dell’identità di genere, ora non viene finalmente più visto come un disturbo psichiatrico. Ci sono degli iter psichiatrici e psicologici prima di arrivare al nulla osta per cominciare”.

Perché negava la realtà? Per paura o per gli altri?
“Sono sempre stata introversa. Mi mandava in confusione il fatto di essere sempre stata attratta dalle ragazze, quindi finchè non è arrivato Internet non ero arrivata a capire che il genere a cui ti senti di appartenere è una cosa e i gusti sessuali un’altra. Non c’erano informazioni, ti sentivi l’unica persona al mondo. All’inizio provi a starci dentro, a fare il maschio, ad arrivare, e non sono l’unica, a far crescere la barba, a arruolarsi nell’esercito per essere… più maschio. Ma si rivela tutto un fallimento, il tuo io è quello e non lo puoi cambiare. Sono arrivata tardi a cominciare, però meglio tardi che mai. Il passato è un assegno già riscosso”.

Come è stata accettata la cosa dalla famiglia, dagli amici e sul posto di lavoro?
“Mia mamma è la persona che più mi sostiene, mio padre è ancora nella fase di elaborazione però se ne farà una ragione. Sul posto di lavoro ho trovato subito supporto. Era comunque una questione di vita o di morte per me, la misura era satura”.

Abbiamo raccontato la storia della ragazza cacciata dal negozio di parrucchiere, le sono capitati episodi discriminatori?
“No. Voglio normalità, condurre la mia vita essendo però me stessa, esco vestita in modo estremamente discreto, anche col trucco. Capita che qualche ragazzo butti lì un colpo d’occhio, la terapia ormonale femminilizza e dunque se ti vesti con discrezione nella vita di tutti i giorni passi inosservata. Sul lavoro chi è a contatto con me ha accettato, se ci sia un chiacchiericcio in altri uffici non so, impari un po’ a fregartene, ti tange fino a un certo punto ciò che pensa gente che non sa del dolore che hai vissuto”.

Teme possa essere peggio più avanti?
“Non lo so, la nostra realtà in Ticino è un po’ particolare, non è nemmeno colpa della gente, che si fa un’idea in base a ciò che recepisce dal social, dalla tv. Spesso e volentieri in automatico si associa la parola trans a perversione, prostituzione, quando non ha nulla a che vedere. Quando ho fatto i miei coming out non ho mai usato la parola trans, al massimo il termine disforia di genere. Ho raccontato la mia vita, il perché ho iniziato il percorso e credo che sia importante come comunichi. Quando percepiscono che dietro c’è un malessere concreto e che non è una scelta, ma una necessità, le persone prendono il tutto in modo diverso. Certo, quando non ci sono legami affettivi è più semplice. Vado molto coi piedi di piombo coi miei cari, lascio loro il tempo di abituarsi, cerco di non essere irruenta. A volte finisce che una persona quando comincia il percorso ha talmente voglia di essere sé stessa che poi lo diventa anche nella vita degli altri”.

Lei ha già scelto anche il nome, vero?
“Sì, mi piaceva sin da piccola. Chiesi a mia mamma perché non mi avesse chiamato così e mi disse che era un nome da femmina e io ero uno maschietto. Nonostante tutto il dolore, finalmente quando inizia a guardarti allo specchio vedi te stessa e non detesti più l’immagine che vedi, è liberatorio!”

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