CAMORINO – Con lo sciopero della fame i alcuni migranti, che Gobbi ha detto essere durato solo il tempo di un pasto, si sono riaperte le discussioni in merito al centro rifugiati di Camorino, il cosiddetto bunker, fra i manifestanti di R-Esistiamo che lanciano comunicati taglienti. Hanno denunciato una scomparsa di un asilanti il Ministro ha spiegato che si tratta di un “caso Dublino” (ovvero da rinviare nel primo paese in cui ha chiesto ospitalità). Hanno attaccato una funzionaria del DSS ma la testimonianza di un agente ha parlato di un’aggressione alla sua auto con calci e pugni.
Condizioni estreme? “I cani in Svizzera sono trattati meglio”, avrebbe detto l’asilante in questione. Gobbi sostiene che non hanno voluto loro lasciare il bunker “perché c’è il wi-fi gratuito”. Come sempre quando si parla di immigrazione, ci si divide in due: pro e contro.
Una docente (e sindacalista), Eleonora Failla, ha condiviso una storia relativa a alcuni suoi allievi che hanno vissuto nel centro di Camorino.
Lo riportiamo in forma integrale:
“Un giorno in classe un mio studente mi ha chiesto “maestra qual è il tuo numero preferito?”
Io ho risposto “il numero 16, il giorno della mia nascita".
Lui mi guarda e mi dice “a me non piace il numero 26, non lo posso neanche sentire “ io penso che sia il giorno in cui ha lasciato il suo paese, o il giorno di un lutto, insomma qualcosa di brutto.
Lui continua e mi spiega “questo era il numero che mi hanno dato nel bunker a Camorino, loro non mi chiamavano col mio nome, ma dicevano "Ehi tu 26 vieni qui!”.
Sgrano gli occhi, il mio cervello mi dice che è talmente orribile questa cosa che forse ho capito male.
Lo studente guarda gli altri compagni e chiede “tu che numero eri?”. Uno ad uno tutti i miei 10 studenti dicono il numero che era stato loro assegnato in quella struttura. TUTTI.
Rimango senza fiato, incredula, immobile davanti a quelle parole, a quei numeri.
Non pretendo che tutti siano empatici e sensibili alla questione del bunker di Camorino, ma è bene che tutti sappiano cosa succede lì SOTTO (non dentro, ma sotto terra!). Persone che si rifugiavano sotto terra quando c’erano bombardamenti, persone incarcerate sotto terra perché lottavano per liberare il proprio paese.
Non pretendo comprensione, ma pretendo che le cose si sappiano per come sono, vorrei che qualcuno venisse un giorno a parlare con queste persone e le guardasse negli occhi quando raccontano del viaggio in mare, della Libia, perché io, io ho visto cosa c’era negli occhi dei miei studenti quando dicevano “26, 63, 45”