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Brenno Martignoni: la storia di Vivien Leigh, tra successi planetari e turbe mentali
Una vita tra gloria e sofferenza. La fama dell’attrice che ha interpretato Rossella O'Hara e Blanche DuBois ha sempre mascherato il suo profondo tormento interiore

di Brenno Martignoni Polti


Teatro. Cinema. Volto immortale. Stellare. Di due eroine. Rossella O'Hara. “Via col Vento”. Blanche Du Bois. “Un tram chiamato desiderio”. Da Oscar. Nella realtà. Però. Infelice. Fragile quanto inquieta. In incessante burrascosa dicotomia. Tra successi planetari e turbe mentali. Interiori subbugli. Bipolare. Profonde mestizie. Piene euforie. Alternate. Vivien Leigh. All’anagrafe. Vivian Mary Hartley. Nata il 5 novembre 1913 a Darjeeling. In India. Mamma irlandese. Papà agente di borsa dello Yorkshire. Il ritorno in Inghilterra, quando la piccola aveva appena sei anni. Lì, Vivian, confidò, profetica, alla compagna di banco, Maureen O'Sullivan, futura attrice e madre di Mia Farrow. “Diventerò famosa”. Così sarà. Dopo le scuole. Regno Unito, Francia, Italia e Germania, Vivian frequenta la Royal Academy of Dramatic Art. Marita, giovanissima, un uomo di legge, Leigh Holman. Da lui, ebbe una figlia. Suzanne. Poi, l’idea di un nome d’arte. Sostituire la vocale “a” in “e”. Vivien. Prendere come cognome, il nome proprio del marito. Leigh. Nel 1937, sul set di “Elisabetta d'Inghilterra”, conosce Laurence Olivier. All’epoca, già mostro sacro. Fu subito amore. Segreto. Infatti, non erano liberi. Sodalizio artistico in diverse tragedie shakespeariane. Si uniranno in matrimonio, nel 1940. Fino al divorzio, nel 1960, faranno coppia, più famosa e prestigiosa delle scene inglesi. La vera svolta. Il regista George Cukor. Alla ricerca dell’interprete del ruolo della protagonista, Scarlett O'Hara (Rossella, nella versione italiana). Vivien Leigh ebbe la meglio, a sorpresa, su Katharine Hepburn e Bette Davis. Nelle sue cerchie, era solita dire. “Mi sono scritturata io nel ruolo di Rossella O'Hara". Con la stessa determinazione con cui, appena conosciuto Laurence Olivier, assicurava. “Sposerò quell’uomo”. Il colossal, tratto da un libro altrettanto celebre, fu un successo senza precedenti.  Di pari passo, però, manifestava incipienti segni patologici. Depressione. Incontrollate disinibizioni. Con comportamenti sopra le righe. Il 1944 fu anno orribile. “Cleopatra”. Segnerà la caduta. Anche materiale. Durante le prove, rovinò a terra ed ebbe un aborto spontaneo. Iniziò a bere. Le malattie si presero tutte le rivincite. Fino a essere sottoposta all'elettroshock. Terapia rudimentale, che le provocò danni permanenti. Compromettendone, relazioni sociali e professionali. Qualcosa cambiò, nel 1949. Con la parte di Blanche Du Bois. Nel lavoro teatrale di Tennessee Williams. Due anni dopo, la versione hollywoodiana. La figura controversa di Blanche le calzava a pennello. Facendola propria al punto da finire, effettivamente, come lei, nella finzione, in una clinica psichiatrica. Nel 1953, altra interruzione di gravidanza. Con il ritiro dalle riprese de “La pista degli elefanti”. A risentirne, la nomea della Diva. Moltiplicandosi gli apprezzamenti poco lusinghieri in punto a professionalità. Nel 1967, dopo un ulteriore “La nave dei folli”, Vivien Leigh, vide accrescere i problemi respiratori da tubercolosi. Male, con cui aveva convissuto, per tutta l’età adulta. Una crisi acuta. A portarsela via, l’8 luglio 1967, a soli 53 anni. Nonostante le resistenze. Rifiutando il ricovero. Osservando riposo assoluto. Nella sua casa londinese di Eaton Square. Purtroppo, non ebbe la meglio. Dovette soccombere. Stremata e senza forze. Dissacrante. Al passaggio. Eterno.  Da alti calici. Come le memorabili battute finali tra Rhett Butler-Clark Gable e Rossella O’Hara-Vivien Leigh. Sull’uscio. Dischiuso. “Se te ne vai, che sarà di me? Che farò?”. “Francamente, me ne infischio".

 
 

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