Di Fiorenzo Dadò (articolo pubblicato su LaRegione)
Quella di sabato 29 giugno era una sera come molte altre per noi abitanti dell’Alta Vallemaggia. Poi un temporale, come se ne sono visti tanti negli anni, ha cambiato tutto ed è iniziato il nostro incubo. Io ero a Roseto, in Valle Bavona, coricato da poco. Era passata da poco la mezzanotte, quando il letto ha iniziato a tremare, tremare, sempre più forte; era la montagna sovrastante che scrollava la schiena facendo sentire il suo ruggito. Pochi minuti, che sono sembrati eterni, poi tutto è tornato come prima.
Corro fuori, è buio pesto, non vedo nulla. Solo un forte odore di fango e il presagio che qualcosa di brutto fosse successo. La frana è passata poco distante, il tempo di avvisare i soccorsi, evacuare chi avrebbe potuto essere ancora in pericolo stando in casa. Il fiume in piena era ostruito e formava un lago che minacciava le case e la Bavona fino a Bignasco. Poi il nulla. Le comunicazioni si interrompono e resto solo, con la sensazione di essere dimenticato dal mondo. Poco distante, qui in Bavona come in Lavizzara – questo lo scoprirò solo il giorno successivo –, la devastazione è immane. L’acqua ha disseminato sofferenza e morte. Il resto è cronaca di queste settimane. La distruzione ci ha lasciato in eredità un danno incalcolabile. Famiglie che piangono i loro cari deceduti, e altre che vivono nello strazio di non poterli piangere, ancora dispersi.
Ora si tratta di riprendere in mano il nostro destino, ricostruire pietra su pietra quel che è rimasto. Molte testimonianze dei nostri avi rimarranno solo nella nostra memoria, cancellate dalla furia dell’acqua, per sempre. Non mi illudo, dopo il forte interesse dei primi giorni, da parte delle autorità federali e cantonali i problemi da affrontare saranno (comprensibilmente) molti altri.
Sono consapevole, e con me i miei convallerani, che è come scalare una montagna, una di quelle pareti difficili e con pochi appigli. Un percorso costellato di burocrazia, formulari, studi e controstudi; rallentato magari pure dall’eccesso di zelo di qualche funzionario che non ha ricevuto il dono del pragmatismo, come si è visto purtroppo anche in queste settimane. Poi ci sono le leggi settoriali, di tutti i tipi, che regolano ogni cosa, piccola o grande. Dalla pianificazione, al bosco, all’acqua sino al minuscolo insetto; norme generalmente interpretate in maniera rigida, in particolare quando si tratta di assecondare chi ha voce flebile. Sono cose già viste in passato, qui tra queste pareti.
La gente di montagna conosce bene l’arte della pazienza e della perseveranza, quando si tratta di sopravvivenza. Ma a tutto c’è un limite. È per questo che i valmaggesi hanno reagito immediatamente, rimboccandosi le maniche, senza aspettare ordini da nessuno. Ci siamo dati da fare in molti, già in quella notte terribile. Poi è arrivato l’aiuto commovente dal resto del Ticino, che non dimenticheremo e del quale siamo enormemente grati. Grazie al fondo creato dai comuni e alla generosità delle donazioni, si potrà intervenire laddove gli aiuti pubblici scarseggeranno.
Ora occorre però un cambio di passo, politico, amministrativo e legislativo, una sorta di statuto speciale di catastrofe che faciliti ogni cosa. È impensabile che si possa intervenire e ricostruire, con le stesse prassi e regole applicate in circostanze normali. Dal punto di vista operativo, c’è bisogno di concretezza e pragmatismo. Per l’aspetto pianificatorio nelle zone disastrate della Bavona e della Lavizzara, occorre uscire dall’incertezza che regna, dando risposte celeri ai Municipi e alle comunità toccate. La Vallemaggia è la regione dell’intero arco alpino più sfruttata per la produzione di elettricità e il Cantone incassa da 70 anni, decine di milioni di franchi all’anno, senza lasciare nulla alla popolazione locale. Anche dal punto di vista finanziario quindi, se la logica non fa difetto, il governo non dovrebbe avere nessun tentennamento a mettere a disposizione le ingenti risorse necessarie.
Il dramma avvenuto in Vallemaggia è il dramma di tutto il Ticino, che è per sua natura periferia e montagna. Le valli si sgretolano e vengono erose, ma sono le città a essere situate sulle sponde di fiumi che portano poi i detriti sino alle porte delle loro case. Non abbiamo quindi nessun bisogno di perderci in discussioni insensate come quelle inscenate da Avenir Suisse oppure in certi salotti di Zurigo, che suggeriscono di abbandonare le regioni montane perché troppo costose da proteggere. I nostri avi ci hanno insegnato con l’esempio come si reagisce alle calamità, traendo un minimo bene anche da un grande male. Uniamo le forze e sono certo riusciremo a fare altrettanto.