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Cronaca
17.06.2017 - 09:300
Aggiornamento: 21.06.2018 - 14:17

I giochi di potere dietro la blue whale. "I giovani hanno bisogno di riorientare le loro sfide. Mostriamo loro quanto è bella la vita"

A distanza di qualche settimana dal boom del fenomeno, ne parliamo con Kathya Bonatti. "Quando ci sono comportamenti autolesionisti, bisogna subito ricorrere all'aiuto di un professionista"

BELLINZONA – I video de Le Iene erano dei falsi, ma il blue whale, il terribile gioco della balena blu, esiste, eccome. Dopo il servizio choc e le rivelazioni, in tutto il mondo si è cominciato a parlare di ragazzini che, in una folle corsa a tappe, dal tagliarsi le braccia al vedere film dell’orrore sino al suicidio: salvati dagli amici, dagli insegnanti, informati tramite i media.

Ne abbiamo parlato a lungo anche noi, riuscendo anche a intervistare una ragazzina ticinese che era caduta nella rete. Trovare un esperto che rispondesse alle nostre domande sul perché qualcuno arriva a tanto non è stato facile, vista la delicatezza del tema. A qualche settimana di distanza, ne abbiamo parlato con la Life Coach e consulente in sessuologia Kathya Bonatti.

Grazie per essersi prestata, nonostante la responsabilità che sente per questa intervista. Perché i ragazzi entrano nel blue whale?
“Bisogna chiedersi perché una persona è felice di morire. Hanno dei comportamenti autodistruttivi. Non sono consapevoli o devono dimostrare di far parte del gruppo, di essere coraggiosi sfidando la morte. Sono prove e valori che non possono essere avvalorati, per essere coraggiosi non c’è bisogno di rischiare di morire in modo così superficiale, senza un apporto positivo. Ci fosse per loro un’emozione, una sfida che possa portare a un benessere, qualcosa che mentre si fa porti a un piacere… Non so, penso a chi pratica quegli sport in cui si vola, si rischia la morte ma per un anelito di libertà, con la finalità di avere benessere. Questi giochi invece sono dinamiche di potere patologiche per chi aderisce, si parla di persone con tendenza autodistruttive. C’è chi lo fa da solo, drogandosi, tagliandosi, oppure istigando altre persone a farlo.

Ci faccia capire, far suicidare qualcuno è un modo per dimostrare di aver potere, nei giovani d’oggi?
“Esatto, e chi subisce questo, invece di infliggersi da solo i comportamenti non positivi, facendosi del male, ubbidisce a chi lo ordina. Ed è patologico”.

Sembra assurdo che ci sia chi si lascia comandare comportamenti del genere, non trova?
“Si tratta di gente che non ha stima di sé, non ha alternative costruttive come può essere lo sport, non sanno utilizzare le capacità per ottenere un obiettivo, che serva a mettere alla prova i propri limiti con fatica, finalizzati a star bene. Questi comportamenti autodistruttivi possono produrre adrenalina ma fanno del male”.

I giovani non sanno più divertirsi in modo sano, dunque?
“Devono riorientare le loro sfide, che l’essere umano ha innato. Ma bisogna andare verso sfide positive”.

Non ha voluto parlarci dei meccanismi psicologici che scattano per evitare l’effetto Werther, ovvero l’emulazione. È un bene che la stampa, anche se ora molto meno, ne parli?
“Bisogna parlarne, mostrando però le alternative. Più che spiegare cosa può portare persone a compiere certe azioni, vanno fatti vedere esempi positivi, dove si investono le proprie energie in sentimenti positivi, nello sport, nella vita, nel costruire delle sfide legate al benessere e alla vita. Il confine fra vita e morte a volte è sottile, si può dire. E non sempre c’è la consapevolezza di quanto è bella la vita. Poi, ribadisco, una persona amata, seguita, ascoltata, non fa queste cose”.

Qui tocchiamo il tema dei gentori… cosa devono fare col disagio dei loro figli?
“Ascoltare il proprio figlio, parlargli, spiegargli come arrivare al benessere in modo concreto. Accogliere il disagio, accoglierlo, però mostrandogli come riuscirvi. È come dire a qualcuno di scalare l’Everest senza insegnare passo per passo. Ai ragazzi vanno mostrate le tappe, ad una ad una”.

Come può un genitore spiegare dinamiche come quelle del blue whale?
“Un genitore dovrebbe parlare sempre col figlio, dirgli cosa fare della sua tristezza quando sta male, dirgli che si può soffrire per amore, per delle critiche, per tanti motivi, e facendogli capire come si reagisce, per esempio non facendo pesare il giudizio altrui, sviluppando la propria personalità in modo forte. Il lavoro, in questo caso, va fatto a monte”.

Ma se un ragazzo inizia il gioco? È troppo tardi per prevenire?
“A quel punto devono andare da un professionista, che ha gli strumenti per aiutarlo in modo diverso. A volte il disagio nasce all’interno della famiglia, e i genitori, se ne sono corresponsabili ad alcuni comportamenti inadeguati, non possono farvi fronte, devono ricorrere dunque a un aiuto”.

In quali casi un genitore deve rivolgersi a un professionista?
“Quando una persona ha comportamenti autodistruttivi di qualsiasi genere, dalla droga all’alcool dal tagliarsi ai disturbi del comportamento alimentare, fino alla criminalità o al fare del male agli animali. Sono tutti segnali forti che dicono che una persona sta male e che non ha gli strumenti di uscirne, per cui ha bisogno di aiuto”.

Qualche giovane ha denunciato, salvando gli amici. Ma perché alcuni non lo fanno?
“Fanno squadra, gruppo, e dunque nasce un’omertà a tutela del segreto al suo interno. Una persona matura aiuta gli amici denunciando i comportamenti? Il gruppo non sempre reagisce così. E a volte la famiglia non è vista come un punto di riferimento nella ribellione. Comunque si deve sempre chiedere aiuto, una figura di riferimento c’è sempre, anche esterna alla famiglia se essa è inadeguata, dagli insegnanti ai servizi sociali”.


Paola Bernasconi
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