LUGANO – “Non capisco…”. È incredulo, Remzi Durmishi, presidente dell’Associazione democratica del Kosovo. Non si capacita delle polemiche di questi giorni. “È da non credere, tanto polverone per niente. Non è accaduto niente, continuiamo a vivere le nostre giornate e a sentire i nostri amici di altre origini. Mi meraviglio del fatto che sia stata vissuta come una provocazione”.
Ovviamente parla dell’ormai famoso gesto dell’aquila di Xhaka, Shaqiri ed anche Lichtsteiner contro la Serbia. “È solo qualcosa che richiama l’origine di quei giocatori. Lì dentro ci sono momenti difficili della vita di quei ragazzi, la storia di Xhaka e Shaqiri rappresenta quella di vari kosovari che son stati cacciati dal Kosovo. L’aquila è il simbolo della bandiera albanese, un simbolo come tutti gli altri. Ovviamente per noi rappresenta tutti gli albanesi. In un momento come quello, dove ci sono euforia e tensione, si è provocati tutto il tempo, è un momento di orgoglio e emozione. Sentivano le urla e i fischi che facevano addirittura tremare lo stadio, ho letto, sentivano magari anche i canti dove dicevano ‘uccidi l’albanese’, quando fai gol richiami, credo che sia possa essere permesso richiamare anche le tue origini e ti senti orgoglioso”, ci spiega.
Ma, come sottolineano in molti, Xhaka e Shaqiri giocano per la Svizzera. Come conciliare l’orgoglio per le origini con la scelta della maglia rossocrociata? “Lo conciliamo col fatto che abbiamo una squadra assolutamente perfetta, noi svizzeri. È il capolavoro svizzero, con ragazzi di varie origini accanto a quelli autoctoni, rappresenta molto bene la realtà”.
Per Durmishi “è un gesto come tutti gli altri. Per esempio io non amo l’esultanza di Dybala, che invece piace a mio figlio: non mi dà però fastidio”.
Impossibile non pensare a una connotazione quanto meno identitaria. Un’altra esultanza sarebbe stata percepita nello stesso modo? “Sicuramente non sarebbe stato uguale. Ma non va preso come una provocazione così grave come è percepita dall’altra parte”.
La comunità albanese non ha vissuto, spiega, nessuna tensione coi serbi, né prima né dopo la partita. E sul tifo, non ha dubbi. “Io tifo per la Svizzera, ci mancherebbe altro. Forse c’è un problema di fondo di comunicazione…”
Ovvero? “Non nasco con un’identità già fatta, e quando mi sposto in un paese è un reset. Si crea man mano, è un processo continuo. Non posso negare quello che ero e quello che sono, sono nato in un paese, sono dovuto emigrare in Svizzera. Ho conosciuto un altro paese, creato un altro giro di conoscenze, studiato qui. La mia identità è il prodotto di questi passaggi che non posso negare. Non vedo perché bisognerebbe. Non capisco le provocazioni. Pensiamo se l’Albania si fosse qualificata e avesse affrontato la Serbia. Avrebbero potuto dire di non venire con la bandiera albanese perché si sentivano provocati? Non è la svastica, non è un simbolo che richiama guerra o odio”.
Paola Bernasconi